Natale è un giorno strano.

Uguale a tutti gli altri, diverso, entusiasmante, deludente, conforme alle aspettative, faticoso, emotivo, sospeso.

Lo si aspetta per dodici mesi, come una gestazione, più che una gestazione, e, come tale, si carica a molla nell’ultimo periodo cercando di combinare famiglie vecchie e nuove, affetti lontani e vicini, richieste e attese, desideri e realtà.

I giorni che lo precedono contengono tutto e niente, perchè, come ogni altro giorno del resto, quello che poi accade è programmabile fin nei minimi dettagli, ma non sarà mai prevedibile, per nessuno.

E così ci si confronta con l’emozione di desideri realizzati e solitudini dimenticate e improvvisamente presenti, con un rito di accoglienza che costringe a riconnettersi con il cosmo tutto, con la pioggia, con le luci, con il buio dei meandri più profondi, con la felicità costretta e un ritrovarsi quasi per caso a godere di scene mai viste, di meraviglia e stupore, di calore e freddo.

Natale è un tempo strano. Rompe ogni schema, costringe alla modifica, all’adattamento.

Natale celebra una nascita, e come ogni nascita, si aspetta con trepidazione e fatica, si accoglie con gioia e paura, e non si sa, non si può sapere, cosa porterà con sè. Tutto e niente, ogni cosa e il suo contrario, una rinascita e un piccolo addio.

Il mio è iniziato con la felicità incontenibile di un bimbo ormai quasi adolescente, che crede al Natale e alla magia dell’attesa. Nomina Babbo Natale con quel misto di fanciullesca allegria e disincantata consapevolezza di chi ha capito che non durerà ancora per molto la magia della sua infanzia, ma che rimane attaccato ai gesti e alle parole perchè possa durare ancora un anno, un anno ancora. 

E io da madre lo osservo dispiaciuta e orgogliosa al tempo stesso, complice fedele e stratega nell’ombra di ogni suo sogno. Perchè i sogni, comunque si chiamino, non vanno mai lasciati andare. E allora ringrazia me per i suoi regali e io non accetto i suoi ringraziamenti, non sono io. Non sono stata io. E’ stato quel Babbo Natale che hai capito bene non esistere ma che voglio che tu tenga con te ancora un pò, un anno ancora, dai… Tienilo ancora con te questo sogno, finchè non arriveranno quelli della tua giovane vita di ragazzo, ed io sarò sempre dietro di te, a fianco a te, anche di fronte a te, se necessario, a darti forza, con tutte le forze che ancora rimangono ai miei, di sogni.

Poi è andato a dividere la festa con l’altra parte della sua famiglia, a sostenere quel fardello di due vite divise che non sono stata in grado di evitargli. Ma che oggi forse sarà meno faticoso. Oggi è Natale. E passa veloce, nel bene e nel male.

E son rimasta da sola, a gestire la mia parte di fardello di vite divise tra quegli affetti giovani ma adulti, costruiti con slancio quasi adolescenziale, in vite ormai cresciute e segnate da antichi percorsi che portano a dover tenere, trattenere, mantenere legami altrove, in altri luoghi. E’ Natale anche per questo in fondo, ed è giusto che le mani forti che custodiscono il mio cuore siano là dove serve il suo essere figlio e fratello e padre.

Riscopro una solitudine inaspettata, che sapevo ci sarebbe stata ma che non ricordavo definitamente nei dettagli. Frastornante, assordante e silenziosa insieme. E nel silenzio ho ritrovato la mia voce. Quasi con piacere ho riscoperto i miei riti solitari, i miei spazi aperti dell’anima, nei quali trascorrevo tanti anni fa i tempi sospesi dei giorni in cui mi trovavo da sola.

Niente da fare, nessun impegno, tempo vuoto. 

Sono andata a messa.

Non so definirmi cattolica ma accolgo l’insegnamento cristiano come l’unico ragionevole per vivere insieme: volersi bene, voler bene agli altri per voler bene a se stessi in un circolo virtuoso di bene che porta al bene.

E nello spazio vasto di una chiesa semi vuota mi sono sentita piccola, incapace nella mia miseria di essere umano, ma ho sentito anche questa volontà di condividere il bene. Persone diverse delle quali ho osservato la devozione e la fede, tante vite che convergono lo sguardo in una sola direzione, nella direzione di quella guida che ricorda nella nascita di un figlio il senso ultimo della vita stessa.

Prendersi cura.

Mi sono commossa nel sentire che tante vite diverse convergessero in una direzione di bene condiviso. Se solo lo facesse ogni essere umano, definendo il proprio dio se lo ritenessero necessario in qualsiasi modo volessero, l’umanità sarebbe salva, ogni vita sarebbe salva, e sacra, e santa.

Potremmo farlo, non sarebbe nemmeno tanto difficile.

Ma è Natale una sola volta l’anno, purtroppo. E la tregua, per sua definizione, dura sempre poco, a volte anche meno del tempo di un giorno.

Asciugate le lacrime mi son trovata in macchina, potevo tornare a casa o riempire gli occhi di luce.

Ho scelto la luce.

Ho guidato fino alla piazza principale della mia città vicina. La pioggia mi accompagnava mentre mi accoglieva la ruota panoramica montata per le feste di Natale, caleidoscopicamente rifratta attraverso le gocce di pioggia sul parabrezza.

Non amo gli ombrelli, quando piove tiro su il mio cappuccio e cammino circondata dall’acqua quasi a raccogliere una benedizione dal cielo.

Mi sono incamminata per le viuzze addobbate a festa, dato uno sguardo alle vetrine, trovato una galleria d’arte alla quale magari in futuro affiderò i miei dipinti e con essi una parte importante dei miei progetti per il futuro.

Ho sbirciato nella tenda di una giostra antica illuminata ma ferma. Ho provato tenerezza per quei giochi festanti costretti dalla luce accesa a mostrarsi inermi, inutili senza la contentezza dei bimbi che girano su.

Ho fotografato con il telefono inzuppato tanto quanto il mio piumino, intrecci di luci e alberi addobbati e infine ho trovato la stella.

Un’enorme stella cometa appoggiata nella piazza del Duomo, una stella caduta, forse metafora di come abbiam perso nel vortice dei giorni la capacità di guardare in alto, di volgere lo sguardo al cielo. E allora la stella scende, ad indicarci la strada dal basso, giù alla nostra altezza, l’unica che ci è rimasta dal basso delle nostre rincorse quotidiane.

Luminosa, bellissima, nel suo spalmarsi a terra riflessa tra le pozzanghere del selciato in pietra serena. 

Un gruppo di sette o otto ragazzi indiani vestiti a festa coi loro ombrelli enormi si alternavano in singoli o a coppie per farsi le foto su quello sfondo di luce.

Li guardavo, col mio cappuccio grondante, dal punto in cui avevo deciso di scattare la mia foto alla stella caduta, e aspettavo che finissero il loro giro di giostra fotografico per lasciare libera la scena.

Era bello vederli mettersi in posa sorridenti, sistemarsi i capelli e risvolti dei loro pantaloni. Chissà che quelle foto piene di luce non fossero destinate alle loro famiglie lontane, ai loro affetti lasciati nelle terre che hanno lasciato. A dimostrare che in un giorno di festa anche loro, destinati qui da noi ad occupare quei posti di lavoro che noi non vogliamo più fare, stanno in un posto dove c’è tanta luce, che è lì, scesa dal cielo anche per loro, nell’illusione di aver raggiunto quel sogno per il quale hanno lasciato quelle terre, dove ritornano solo attraverso le foto sui loro telefoni.

Ho chiesto loro se potessero interrompere le loro fotografie festose solo per un attimo, perchè io potessi fare la mia foto. Si sono spostati, educatamente, e quando li ho ringraziati hanno sorriso tutti insieme e son tornati alle loro fotografie immerse nella luce.

Son tornata alla macchina. E mi è venuta voglia di scrivere.

Ed ecco, è Natale anche per me. 

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