Una delle cose che ricordo con chiarezza della mia infanzia, trascorsa tra Bagnolo e Montemurlo, era il rumore dei telai e delle macchine tessili che invadevano l’aria nelle sere d’estate.

Senza dover andare nemmeno troppo lontano ad incontrare i grandi capannoni della zona industriale, che al tempo era in rapida costruzione ed espansione, al piano terra di quasi tutte le casette a schiera dei borghi vecchi, al posto degli odierni garage e ricoveri per le auto, quasi ogni famiglia aveva un telaietto o una piccola macchina tessile che mandava avanti l’ “industria” familiare e, come quest’ultima, non si fermava mai, nemmeno di notte.

Complice la possibilità di trattenersi piacevolmente e più a lungo sul balcone o il poter andare a giocare in piazza o ai giardini, visto che il giorno dopo non si doveva andare a scuola, il sottofondo ritmato che usciva dagli sporti spalancati per sopportare la calura estiva accompagnava i giochi e le chiacchere del quartiere, e le luci delle piccole fabbrichette domestiche tagliavano la notte a far da contrappunto terrestre ai deboli lampioni gialli.

Chiunque abbia vissuto negli anni 80 e 90 scampoli di infanzia o adolescenza ricorderà bene quello a cui fanno riferimento i miei ricordi personali di bambina.

Non era infrequente trovare tra gli adulti e gli anziani del paese  tanti uomini ai quali mancavano porzioni delle dita delle mani, o addirittura intere braccia, fin sopra al gomito. Erano a quel tempo per me motivo di curiosità e di domande ai miei genitori su quale fosse il motivo di quelle mutilazioni. Scoprivo dalle loro risposte che quelle mani senza dita, quei tronchi senza braccia provenivano sempre da quelle macchine rumorose che condivano col loro ritmo i suoni delle sere d’estate, e che avevano “mangiato” le parti mancanti di quelli omoni brizzolati trascinandosele dentro nei loro ingranaggi infernali.

Più avanti negli anni, già ragazzetta, ritrovavo magistralmente, nel film “Madonna che silenzio c’è stasera” di Francesco Nuti una scena esilarante tutta giocata sul mondo delle tessiture della nostra zona e su come fosse normale, abituale, quasi scontato che agli operai mancassero delle porzioni del corpo e diversi decibel di udito, quasi ad indicare, con cartellini identificativi fatti di carne ed ossa (mancanti) l’appartenenza alla categoria lavorativa dei tessitori.

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Insomma, era bravo, era l’operaio esperto quello che riusciva a riannodare i fili, a sistemare le rocche, a ripristinare la lavorazione senza spegnere la macchina, infilandoci dentro la mano e riuscendo poi a togliercela intera. E, se quest’ultima cosa non fosse riuscita, sarebbe stato comunque segno di esperienza, di grande dedizione al lavoro, di uno stacanovismo masochistico, sì, ma funzionale al dover fare veloce, presto, tanto. Una sciocca medaglia al valore.

Una cultura del lavoro radicata nelle nostre strade in modo così capillare da diventare quasi un tratto genomico dei lavoratori del comparto tessile pratese e montemurlese che imponeva il fare presto e bene…ma soprattutto presto, e a quasi qualsiasi costo.

Il rischio, ben poco calcolato e calcolabile, era accettato, necessario, “mestiere che entra”. Ma, talvolta erano dita, braccia, persino la vita che se ne andava.

E duole trovarsi, pressocchè 30 anni dopo a verificare, purtroppo, con sempre più frequenti fatti drammatici di cronaca dal nostro territorio, che la sicurezza venga tuttora messa in secondo piano per “far prima”, che possa essere considerata un intralcio alla produzione, un fastidioso rallentamento di quell’equazione che prevede che si debba fare, e fare, e fare sempre di più e sempre più velocemente per reggere un impalcatura di costi e di infima considerazione del lavoro manuale, mai tanto rapido quanto le macchina, mai tanto veloce come si vorrebbe.

Invece sarebbe proprio questo il momento di modificare questa corsa contro il tempo, e contro il benessere e la salute degli operai, per tornare all’antico rispetto delle cose fatte con le mani, fatte per bene, lentamente.

Facendo tornare la lentezza, la precisione, l’attenzione e la conseguente sicurezza che ne deriverebbe quasi automaticamente, al centro delle dinamiche lavorative. La lentezza dovrebbe essere un valore accrescitivo della qualità che il nostro distretto industriale tessile ha sempre mantenuto, è vero, al prezzo però di qualche dita e braccia mozzate, di qualche vita tagliata.

E la lentezza, la precisione, la qualità elevatissima del frutto del nostro essere tessitori dovrebbe essere pagata per la competenza del lavoro con le mani, per l’attenzione calma e precisa che siamo in grado di porvi, non per la enorme massa di produzione informe al costo del sacrificio di qualche famiglia ogni tanto… quando una macchina si guasta, quando un blocco di sicurezza viene rimosso, quando succede che ci finisci dentro e lì, incastrato, rimani.

“In un mondo che corre vorticosamente, con logiche spesso incomprensibili, il problema della lentezza si affaccia alla mente con prepotenza, come una meta del pensiero e della via da percorrere. Andare più veloci non significa conoscere più di quello che la strada offre e nessuno vuole arrivare prima alla fine della propria strada.”

Lamberto Maffei (“Elogio della Lentezza”)

Pubblicato sul sito “Montemurlo Notizie”( https://www.montemurlonotizie.it/), il mio articolo lo trovate qui: https://www.montemurlonotizie.it/di-notti-e-telai/

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