Esistono diversi tipi di quarantena, è vero. C’è quarantena e quarantena.
E un tipo è sicuramente quello degli “uniti ma distanti”, in un periodo in cui siamo pressocchè tutti obbligati a stare “distanti ma uniti”.
E conta almeno un’appartenente a questo tipo di quarantena. Io.
Di questa categoria i decreti non tengono conto, quando decidono chi può tornare al lavoro e chi no.
E nemmeno i prefetti, che non riuscendo a verificare tutte le richieste di deroga delle aziende, danno il via tout court.
E nemmeno chi invoca la clausola del silenzio assenzo.
A questo tipo di quarantena appartengono le persone che si amano, ma abitano in due comuni diversi, in due province diverse, in due regioni diverse. E non si vedono da tanto tempo, e non sanno quando potranno rivedersi.
E tornare al lavoro per uno di loro è un’accelerata al rischio di non rivedersi più.
Perchè nessun malato vede i suoi cari se si ammala. E chi rimane, in un comune diverso, in una provincia diversa, in una regione diversa non farebbe in tempo ad arrivare a salutarlo anche solo dal vetro, prima di perderlo. E chissà se andrebbe bene l’ennesima autocertificazione, per riuscire ad andare a stringergli la mano, a dargli un bacio, a donargli un sorriso. Porrebbero essere gli ultimi. Chissà se sarebbe considerato un motivo di comprovata necessità lo spostamento.
E allora arriva improvvisa una morsa di angoscia che acchiappa il diaframma sfondando la schiena. E strazia i polmoni. Respirare è faticoso. E scendono le lacrime.
Perchè la posta in gioco è alta. E la conta dei possibili danni è pesante.
Perchè chi rimane lo sa cosa ha passato nelle sue vite precedenti, e quanta strada abbia dovuto fare prima che la vita gli regalasse l’altro. In un altro comune, in un’altra provincia, in un’altra regione.
E non vuole perderlo. Non adesso. Non così.
Per riaprire una fabbrica che produce cose non necessarie, ma strategiche per le dinamiche economiche della classe imprenditoriale che piange miseria. Una fabbrica che riapre per produrre soldi. Non camici, mascherine, attrezzature mediche, cibo. Ma soldi. Solo soldi.
E allora il prefetto dovrebbe leggerle tutte, una per una quelle richieste di deroga, e avere il coraggio di negarle perchè non necessarie. Perchè la posta in gioco è alta. Perchè per chi rimane, la posta in gioco è alta. e la dimensione del rischio, per chi rimane, sta parecchio più in alto dei soldi. In quell’iperuranio stellato e benedetto dei sentimenti, della vita vera, della felicità.
Ma che ne sanno di questa elevata poesia i mercanti del tempio? Che ne sanno della sacralità dei sentimenti coloro che contano i soldi?
Non può esistere l’accidiosa clausola del silenzio assenso. Bisogna pronunciarsi, e scegliere da che parte stare.
Gli uniti ma distanti rischiano di perdere la persona che li aiuta a mantenersi vivi, a resistere alla vita. Rischiano di non poterla rivedere più.
E allora si chiedono, e se lo chiedono, perchè se uno di loro può tornare al lavoro a rischiare per logiche economiche, non può lasciare il suo comune per andare dalla persona che più avrebbe perdite in caso di attacco del nemico? Perchè non dare il congedo come per i militari della prima linea, per tornare a “casa” ogni tanto?
Gli uniti ma distanti hanno paura. A modo loro. Come tutti, del resto, ognuno a suo modo.
E nei giorni della Passione di Cristo, ognuno porta la sua croce.
E aspetta, piange, prega.
Prova ad accettarla, quella croce. Anche se pesa come un macigno, sul cuore.
Una stretta al cuore mentre leggevo.
molto sociale, reale, specchio di un tempo atroce, molto poetico, tenero e straziante di nostalgie primarie, fondamentali…lungo e vario come l’attesa come l’ansia che opprime il diaframma