Sheradzade Hassan, bambina curdo-siriana di otto anni, Idomeni, 2016

 

Carla guidava placida, in una calda fine mattinata di giugno. Piero, suo figlio, era sistemato dietro, sul suo seggiolotto e la sua vocina particolarmente euforica quel giorno rispecchiava la leggerezza della fine dell’ultimo giorno di scuola, a lungo agognato nei tanti risvegli assonnati delle ultime settimane.

Carla vedeva nello specchietto retrovisore i suoi occhietti furbi, la sua chioma di capelli ispidi e biondicci, e si sentiva felice.

“Mamma, lo sai ho fatto un sogno bruttissimo?” iniziò Piero con un tono preoccupato.

“E che hai sognato di tanto brutto? chiese Carla, preparando la sua mente a elaborare rapidamente le informazioni che le sarebbero state fornite di lì a poco da suo figlio, per tentare di arginare le paure che da esse sarebbero emerse.

“Ho sognato che c’era la guerra, tra l’Italia e l’America.”

“Ah… non saremmo messi bene, nel caso succedesse, lo sai? L’America è molto più potente dell’Italia…e la guerra non è mai una bella cosa… Ma che succedeva nel tuo sogno?” Carla intuì subito che non sarebbe stato semplice.

“Gli americani venivano a prenderci, io e te, e i miei amici di scuola coi loro genitori, e ci portavano in un posto tutti insieme, poi ci separavano, noi bambini da una parte e voi genitori dall’altra.”

Nella mente di Carla passarono in un istante immagini sbiadite di soldati, fili spinati, corpi emaciati, camicie a righe con stelle cucite al petto, numeri tatuati, bambini soli, deportazioni, morte, che tristemente caratterizzano la memoria visiva legata all’ultima delle grandi guerre del nostro sciagurato tempo e si preparò a spiegare ad un bambino, a suo figlio, nel modo più sereno possibile, cosa potesse fare la follia del genere umano contro se stesso e perchè succedessero cose del genere, e continuassero a succedere, purtroppo, senza soluzione di continuità e men che meno intelligenza, anche in tempi molto più recenti. Decisamente, non sarebbe stato semplice.

“Ma che facevano poi gli americani? Ci facevano del male?” chiese iniziando a tradire un pò di preoccupazione.

“Ma no mamma! Gli americani facevano la guerra solo ai soldati, mica a noi! Noi non avevamo fatto niente e allora ci avevano portato via per proteggerci!”

“Ah, meno male allora!” Carla si sentì vagamente sollevata. “E, che succedeva? Che facevi te insieme agli altri bambini? E io insieme agli altri genitori? Ci facevano lavorare?”

“Nelle stanze dei bambini, mamma, avevano messo cinque televisioni e i controller per i videogiochi. Noi bambini giocavamo insieme, facevamo le sfide e ci si divertiva un sacco! A voi genitori, invece, avevano dato la carta per scrivere e i libri e stavate a scrivere storie e racconti e a leggere, come piace a te mamma!”

“Eh però! Allora bello così! Tu a giocare io a scrivere, non sarebbe male una guerra così!” Carla aveva ricominciato a sorridere, sentendo la strana visione della guerra che aveva elaborato Piero. E pensava a quanto la fantasia dei bambini fosse potente da trovare colori e bellezza anche nelle più truci delle bassezze degli esseri umani.

“Però, Piero, non saremmo stati liberi, e io senza poter stare con te non sarei felice di scrivere e leggere tutto il giorno…” proseguì Carla, cercando di portare il ragionamento giocoso del bambino sul terreno più profondo della libertà e degli affetti.

“Gli americani ci tenevano prigionieri solo perchè fuori c’era la guerra, quella vera, ma noi non avevamo fatto niente, non la facevano a noi la guerra e ci proteggevano. Ma noi bambini si poteva venire a trovarvi, sai? C’erano le guardie, bisognava chiederlo, ma io lo chiedevo e venivo a trovarti.” Piero era stranamente contento, dato l’argomento.

“Ma te stavi bene? Eri contento? E che facevamo quando venivi a trovarmi?”

“Io stavo benissimo, giocavo sempre e mi davano un sacco di cose buone da mangiare! Quando venivo a trovarti, io ti raccontavo che avevo vinto e che avevo superato i livelli dei giochi, e te mi leggevi le storie che avevi scritto.”

“Ti ricordi quando due mattine fa mi hai svegliato” proseguì Piero “e io ti ho detto che non volevo svegliarmi perchè stavo sognando una cosa bella? Ecco, era quella mattina lì, stavo sognando proprio questa cosa qua della guerra, ma te mi abbracciavi e mi stavi leggendo la storia che avevi scritto, non volevo che finisse il sogno.” Concluse Piero e scoppiò a ridere.

Carla rise con Piero, un riso liberatorio e ammirato per come anche la guerra possa essere a colori per i bambini e come i loro colori, viceversa, possano render bello un sogno che pure era iniziato come un incubo.

Erano arrivati a casa, di lì a poco avrebbero preparato il pranzo. La scuola era finita, il sole riscaldava la pelle. Piero rideva, giocava, colorava il mondo, faceva anche la guerra, per gioco. Carla, per gioco, scriveva davvero racconti, e avrebbe continuato a scriverli, con o senza la guerra del suo Piero.

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