Ricordo di aver letto “Il Piacere” di Gabriele D’Annunzio in una lontanissima estate dei primi anni ’90. Doveva essere l’estate del mio secondo anno di liceo scientifico ma, poco incline come sono a ricordare le cose della mia vita, non posso dire di esserne del tutto sicura.
Ricordo però con precisione che me ne innamorai, e i motivi sono due.
Il primo per il gusto estetico della parola, che D’Annunzio usa in modo talmente magistrale da costruire fraseggi di una bellezza tale da esser quasi musicali. Questa consapevolezza è arrivata molto tempo dopo, quando ho iniziato a scrivere, qualche anno fa, e mi sono trovata spesso a cercare di incastrare le parole in modo che ne sortissero immagini belle e armoniche come melodie scritte su un pentagramma. Non so dire se quello che scrivo adesso sorte l’effetto desiderato e ricercato, ma il mio modello mentale torna spesso lì, a quella lontana lettura estiva. A suo tempo, quello che mi colpiva era la raffinatezza e l’eleganza delle frasi, che ammiravo come si ammira un dipinto o una scultura…a bocca aperta.
Il secondo, di stampo decisamente più narcisista, è perchè la protagonista femminile, la sfuggente, ferina, sensuale Elena Muti, sia chiamava come me. E l’idea di portare il nome di una donna della letteratura descritta così elegante, fiera, prepotente, sfuggente, misteriosa, intrigante, mi piaceva da impazzire. Crescendo mi sono scoperta anche molto simile a lei, fino a pensare, a tratti, e non senza presunzione, che quella Elena che D’Annunzio descrive in modo così esteticamente potente, in realtà sia io…per un qualche fantasioso e giocoso viaggio, andata e ritorno, nel tempo, che mi diverto a pensare possibile.
Ed eccola qua, bellissima… esattamente come me.
Giovanni Boldini, “Ritratto di Mademoiselle De Nemidoff”, 1908, olio su tela, 232x122cm
“Qual era dunque la vera essenza di quella creatura? Aveva ella percezione e coscienza della sua metamorfosi costante o era ella impenetrabile anche a se stessa, rimanendo fuori del proprio mistero? Quanto nelle sue espressioni e manifestazioni entrava d’artificio e quanto di spontaneità?
Chi era ella mai?
Era uno spirito senza equilibrio in un corpo voluttuario. A similitudine di tutte le creature avide di piacere, ella aveva per fondamento del suo essere morale uno smisurato egoismo. La sua facoltà precipua, il suo asse intellettuale, per dir così, era l’imaginazione: una imaginazione romantica, nutrita di letture diverse, direttamente dipendente dalla matrice, continuamente stimolata dall’isterismo. Possedendo una certa intelligenza, essendo stata educata nel lusso di una casa romana principesca, in quel lusso papale fatto di arte e di storia, ella erasi velata d’una vaga incipriatura estetica, aveva acquistato un gusto elegante; ed avendo anche compreso il carattere della sua bellezza, ella cercava, con finissime simulazioni e con una mimica sapiente, di accrescerne la spiritualità, irraggiando una capziosa luce d’ideale.
Ella portava quindi, nella commedia umana, elementi pericolosissimi; ed era occasion di ruina e di disordine più che s’ella facesse pubblica professione d’impudicizia.
Sotto l’ardore della immaginazione, ogni suo capriccio prendeva un’apparenza patetica. Ella era la donna delle passioni fulminee, degli incendi improvvisi. Ella copriva di fiamme eteree i bisogni erotici della sua carne e sapeva trasformare in alto sentimento un basso appetito. Accadeva in lei un fenomeno a lui ben noto. Ella giungeva a creder verace e grave un moto dell’anima fittizio e fuggevole; ella aveva, per dir così, l’allucinazione sentimentale come altri ha l’allucinazione fisica. Perdeva la coscienza della sua menzogna; e non sapeva più se si trovasse nel vero o nel falso, nella finzione o nella sincerità.”
G. D’Annunzio, Il Piacere, 1889